Franco Basaglia
Nacque a Venezia l’11 marzo 1924 da Enrico e da Cecilia Faccin. Si iscrisse alla facoltà di medicina e chirurgia di Padova e già da studente orientò i suoi interessi verso la psichiatria, iniziando a frequentare la clinica neuropsichiatrica di quell’università, allora diretta da G. Belloni. Indirizzatosi subito verso la carriera universitaria, in quella stessa clinica, dopo aver conseguito la laurea e la specializzazione in malattie nervose e mentali, divenne assistente, titolo che avrebbe mantenuto fino al 1959; nel 1953 aveva sposato Franca Ongaro. Le sue prime esperienze di lavoro e di studio si avviarono in un ambiente improntato all’indirizzo neuropsichiatrico organicistico, allora prevalente nella cultura psichiatrica italiana sia nell’ambito accademico sia in quello ospedaliero.
A Padova, come del resto nella grandissima maggioranza delle università e degli ospedali psichiatrici italiani, la cultura psichiatrica dominante nel secondo dopoguerra era quella proposta da personale formatosi intorno agli anni Venti. Sufficientemente refrattaria a quanto in Europa, e non solo in Europa, si stava cercando di studiare sugli aspetti psicologici, psicodinamici e antropo-fenomenici della vita dell’uomo, la cultura psichiatrica italiana, sia accademica sia manicomiale, appariva attestata su posizioni pressoché esclusivamente organicistiche, impegnata in ricerche di tipo anatomo-patologico, classificatoria secondo i codici kräpeliani e postkräpeliani. Il trattamento asilare, con finalità custodialistiche più che terapeutiche, non aveva valide alternative. La cura, d’altronde, in quegli anni andava sperimentando le prime applicazioni dei primi neurolettici e antidepressivi, ma restava ancora in massima parte legata alle terapie di shock (con insulina ed elettricità).
Dopo un primo, breve periodo di adattamento al modello di ricerca scientifica prevalente, il B. iniziò a distaccarsi dalle posizioni della clinica padovana e fu tra i primi in Italia ad interessarsi al pensiero fenomenologico esistenziale che trovava in E. Minkowski, L. Binswanger, E. Straus, J.P. Sartre, ecc. la proposta di un’interpretazione e applicazione pratico-teorica al campo psichiatrico. Questo pensiero filosofico offriva al B. la possibilità di rispondere all’esigenza di avvicinare il malato mentale senza i diaframmi impliciti nella rigida definizione sintomatologica delle sindromi, attraverso la comprensione delle sue diverse modalità di esistenza. I presupposti teorici della fenomenologia fornivano così gli strumenti per avviare una contestazione della psichiatria come disciplina medico-scientifica e per avvicinarla ai temi di una cultura antropologica. Il B. iniziò dunque a sottrarsi ai vincoli di una visione oggettuale quale era quella imposta dal metodo scientifico di una medicina positivista e si avvicinò alla lettura della modalità di esistenza del malato fuori della nosografia sintomatologica tradizionale.
Il primo gruppo delle sue pubblicazioni lo mostra aderente ai temi e ai metodi di ricerca scientifica che improntavano la clinica universitaria. L’interesse, tra il 1951 e il 1953, sembra polarizzato su argomenti di psicodiagnostica. Il B. si occupò dell’applicazione clinica di alcuni test mentali, di efficienza intellettiva e di proiezione; studiò i test di associazione verbale e il test del disegno, dedicando successivamente una serie di lavori al test di Rorschach. Dedicò inoltre alcuni lavori ai temi allora dibattuti di diagnostica e clinica psichiatrica, in ordine al problema nosografico degli stati ossessivi e degli stati depressivi, nonché a temi di terapia sull’azione di alcuni psicofarmaci.
Il suo avvicinamento al pensiero fenomenologico è testimoniato da una serie di pubblicazioni di psicopatologia e di clinica. I lavori principali di questo periodo furono quelli pubblicati nel 1956: Il corpo nell’ipocondria e nella depersonalizzazione. La struttura psicopatologica dell’ipocondria (in Rivista sperimentale di freniatria LXXX, ora in Scritti, I, pp. 137-164) e Il corpo nell’ipocondria e nella depersonalizzazione. La coscienza del corpo e il sentimento di esistenza corporea nella depersonalizzazione somato–psichica (ibid., ora in Scritti, I, pp. 165-206).
Conseguita nel 1957 la libera docenza nella disciplina, nel 1961 si trasferì alla direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Questa destinazione, rispetto alla prospettiva di una carriera universitaria, poteva assumere il sapore di un abbandono, condizionato dai limiti che aveva incontrato. Segnò invece una tappa importantissima nell’itinerario di evoluzione del suo pensiero. Il B., divenuto direttore del nosocomio senza aver precedentemente maturato un’esperienza diretta di lavoro negli ospedali psichiatrici, non tardò ad esprimere la sua reazione di rifiuto di quella realtà. Identificò certi ordinamenti, regole e consuetudini manicomiali come strumenti della violenza istituzionale, coercitiva e autoritaria, nella quale riconosceva un meccanismo segregante e un significato classista. Individuò in quel sistema e nei suoi metodi di cura la causa prima dell’istituzionalizzazione del malato e l’ostacolo ad un intervento che fosse invece adeguato ai bisogni che la malattia mentale esprime.
L’ospedale psichiatrico di Gorizia era un’istituzione in cui sopravvivevano meccanismi di contenzione e abitudini desolanti che evidenziavano le contraddizioni di certa psichiatria asilare. L’ospedale, dopo le vicende della guerra, si era trovato collocato sul confine con la Iugoslavia ed era una delle strutture sulle quali si concentravano i disagi di quel territorio, anche in ordine a conflitti e problemi socio-ambientali. La provincia di Gorizia contava circa centotrentamila abitanti e l’ospedale aveva una popolazione di circa cinquecentocinquanta ricoverati, con un tasso di ospedalizzaziope molto alto. Dei ricoverati, circa centocinquanta erano di nazionalità iugoslava e restavano in Italia in applicazione del trattato di pace quale spesa di riparazione bellica a carico del ministero degli Esteri. Erano quindi persone inamovibili. Dei quattrocento che restavano, trecento erano malati cronici lungodegenti.
A Gorizia il B. accese la lotta contro il ricovero asilare lavorando contro l’istituzionalizzazione dell’intero ospedale, dei medici, degli infermieri e dei malati. La sua opera impose alcune misure: l’eliminazione dei mezzi di contenzione meccanica, la ripresa dei contatti con l’esterno, l’abbattimento delle barriere fisiche, recuperando l’antico concetto dell’open door. Introdusse un più largo uso degli psicofarmaci e curò la riqualificazione teorica e umana del personale. Questi interventi furono certamente anticipatori rispetto al generale panorama della psichiatria italiana e portarono alla costituzione di una prima comunità terapeutica sulla quale si concentrarono in quel periodo le energie del Basaglia.
Le nuove esperienze di Gorizia accesero presto discussioni in ambito psichiatrico, fecero conoscere la figura del B. e richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica anche al di fuori dei ristretti circoli specialistici. Il B. raccolse intorno a sé un gruppo di psichiatri in sintonia con le sue posizioni, tra i quali A. Pirella, G. Jervis, A. Slavich, D. Casagrande, che furono suoi validi collaboratori. Fu di grande importanza anche l’aiuto della moglie, Franca Ongaro, che ebbe una parte di rilievo nello sviluppo delle sue attività e del suo pensiero. Gli anni di Gorizia furono un periodo di oneroso impegno non solo sul fronte interno, ma anche sul piano della diffusione e della divulgazione delle idee negli ambiti più vasti. A fronte di netti contrasti con gran parte della psichiatria ufficiale, il gruppo di Gorizia seppe acquisire infatti ampi consensi, dentro e fuori l’ambito specialistico, e seppe porsi come punto di riferimento per la psichiatria d’opposizione che acquistava spazio sia negli ospedali sia nelle università.
Fu dunque nell’esperienza di Gorizia che prese corpo la dimensione più originale del pensiero del Basaglia. Non gli sfuggirono certamente idee e fermenti innovatori che investivano la psichiatria europea proprio in quegli anni e che davano vita anche ai primi movimenti di opposizione interna alla psichiatria. Egli conobbe le posizioni di R. Laing, di D. Cooper, di T. Szasz, tuttavia rispetto al movimento di antipsichiatria anglosassone, egli si pose fino dall’inizio con una sua originale collocazione.
Nell’impatto con i meccanismi di un sistema e di una struttura ospedaliera coercitiva e autoritaria, egli trovò gli stimoli della sostanziale evoluzione del suo pensiero e divenne protagonista del primo e più importante tentativo di depsichiatrizzazione e deistituzionalizzazione del malato mentale in Italia. Con il lavoro a Gorizia e a Trieste poi, e con l’incessante attività di sostegno anche politico di queste idee, egli diede energico impulso ai movimenti di opposizione psichiatrica. Nel suo ospedale rovesciò il ritmo istituzionale e aggredì le premesse di una realtà che, a suo parere, identificava il concetto di malattia con quello di esclusione e di emarginazione. Prese posizione contro l’impostazione di una psichiatria attenta esclusivamente al modello medico-scientifico e avviò la battaglia per la distruzione del sistema manicomiale; attaccò gli strumenti di segregazione e di coercizione responsabili, negli ospedali, dei più importanti danni ai pazienti; affrontò la questione dell’isolamento e della reclusione che aggravavano gli aspetti della malattia e ostacolavano la riabilitazione. Il primo lavoro in questo senso fu la comunicazione La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. Mortificazione e libertà dello “spazio chiuso”. Considerazioni sul sistema “open door”, che presentò al I congresso internazionale di psichiatria sociale, Londra 1964 (ora in Scritti, I, pp. 249-258), nella quale raccoglieva le riflessioni di tre anni di lavoro. Anche la relazione La “comunità terapeutica” come base di un servizio psichiatrico. Realtà e prospettive, che presentò al convegno “Realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici”, Varese 1965 (ora in Scritti, I, pp. 259-282), spiegava le basi teoriche del suo operare e dava un preciso ragguaglio sui primi interventi a Gorizia. Vi sono già definiti i contorni principali del suo pensiero sul problema dell’istituzionalizzazione e viene accolta la tesi dei molti autori attenti ai fattori ambientali nella genesi della malattia mentale che consideravano i danni da istituzionalizzazione quasi come una unità sindromica.
Nella seconda metà degli anni Sessanta la posizione del B. si era consolidata e la sua esperienza accendeva nuove forze e suscitava nuovi interessi. I suoi allievi cominciavano a raggiungere nuove sedi e le sue idee si diffondevano trovando sostenitori e ospitalità in molti ambienti. Del resto, il momento socio-politico nazionale offriva spazi adatti per discutere in termini nuovi i temi dell’esclusione e dell’emarginazione del malato di mente e per proporre riflessioni sul dovere dello Stato sociale verso questi problemi.
Nel 1968, nel momento di più forte impegno, il B. lasciò Gorizia; sostenne che “bisognava allora incominciare ad uscire dall’istituzione, in un’azione pratica la cui attuazione a Gorizia, nel clima di difficoltà e di ristrettezza economica e psicologica in cui si era costretti a muoversi, avrebbe richiesto anni di attesa” (Introduzione generale ed esposizione riassuntiva dei vari gruppi di lavoro, in Scritti, I, p. XXV). Per qualche tempo si dedicò ad approfondire i temi del suo lavoro attraverso diverse pubblicazioni e compiendo viaggi di studio che lo portarono a prendere visione diretta di altre esperienze e di altri contesti. Fu dapprima negli USA come visitingprofessor di un Community Mental Health Center di New York, quindi a Parma dove diresse per un breve periodo l’ospedale psichiatrico. Nel 1971 assunse la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, dove riprese e riorganizzò i temi della sua lotta antistituzionale. Il periodo triestino fu segnato dal lavoro per portare la psichiatria fuori dall’istituto, per rompere la barriera tra l’interno e l’esterno dell’ospedale; avviò il graduale smantellamento dell’istituto e organizzò il servizio esterno basandolo sul coinvolgimento dell’ambiente sociale e del contesto politico. Nel 1973 il B. fondò, insieme con un piccolo gruppo di operatori psichiatrici, il movimento di Psichiatria democratica che l’anno successivo tenne a Gorizia il suo primo convegno.
A Psichiatria democratica, nata come risposta organizzativa alle esperienze pratiche, alle riflessioni teoriche e alle occasioni politiche che nel decennio precedente si erano via via costituite in Italia come alternativa alla psichiatria ufficiale, aderirono molti operatori (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali), ma anche familiari di malati e rappresentanti della cultura, della politica e delle organizzazioni sindacali.
A partire dalla metà degli anni Sessanta, la produzione scientifica del B. fu rivolta quasi esclusivamente verso temi di psichiatria istituzionale e testimoniò degli sforzi e delle energie profusi dalla psichiatria d’opposizione in Italia a partire dall’esperienza di Gorizia fino alla riforma del 1978. Vi si ritrovano i connotati del movimento culturale che, rispetto alle analoghe correnti europee e americane, presentava una duplice caratteristica: agiva in un paese segnato da un certo ritardo nello sviluppo sociale e appariva chiaramente politicizzato. Il B. e il gruppo dei suoi più stretti collaboratori produssero, in pochi anni, un rilevante numero di articoli e di volumi destinati a imporsi all’attenzione di vasti strati dell’opinione pubblica.
Nel 1967 fu pubblicato Che cos’è la psichiatria?, a cura dell’amministrazione provinciale di Parma (seconda ediz., Torino 1973), raccolta di documenti e contributi di vari autori, articolata intorno al dibattito che avvenne nell’incontro tra il personale dell’ospedale di Gorizia e quello dell’ospedale di Colorno (Parma) nel 1966. Il volume confermò le posizioni del B. contro certe pretese della psichiatria scientifica e contro l’impostazione tradizionale dell’assistenza asilare per affermare l’inutilità degli interventi tecnici che non fossero accompagnati da rinnovamenti strutturali. Discusse a fondo il ruolo del lavoro psichiatrico nelle diverse figure del medico, dell’infermiere e del malato, propugnando il superamento dell’ideologia custodialistica. In L’istituzione negata (Torino 1968) il B. riprese i temi del rifiuto di fronte alle ambiguità della scienza e della funzione politica della psichiatria; sosteneva la necessità di portare la battaglia antistituzionale fuori della sfera psichiatrica, oltre le pretese di neutralità della scienza, per ampliare la critica alle altre strutture sociali. I due volumi ebbero larga diffusione e fecero conoscere più ampiamente le linee sostanziali del suo pensiero.
Nel 1968 curò l’edizione italiana del libro di E. Goffman Asylums (Torino), uno dei testi più innovatori nella critica alle istituzioni discriminanti; ne scrisse l’introduzione, insieme con F. Ongaro, traduttrice dell’opera. Il lavoro del Goffman gli permise di riprendere il tema delle sfaccettature degli aspetti sociali della malattia e quello dell’ideologia scientifica come alibi e maschera della violenza operata nelle istituzioni per “persone socialmente indesiderate”. Nella lettura del Goffman appariva chiaro come l’immagine del malato in manicomio non fosse il risultato della malattia, ma mostrasse le stesse caratteristiche e gli stessi aspetti dei reclusi in altre istituzioni, anche non psichiatriche (carceri, case di riposo, ecc.). L’anno seguente, sempre in collaborazione con la Ongaro, pubblicò l’introduzione a Morire di classe, libro fotografico di C. Cerati e G. Berengo Gardin (Torino 1969), sulle condizioni asilari. In questo breve lavoro tornò a mettere in evidenza come fosse sterile rendere più confortevoli le condizioni in ospedale e confinare il lavoro di riabilitazione dentro l’ospedale; il lavoro indispensabile doveva essere quello di un idoneo collegamento con l’esterno e il rifiuto degli istituti che, anche se apparentemente non violenti, lasciavano intatto il problema. In questo senso si esprimeva anche la relazione La comunità terapetica e le istituzioni psichiatriche, al convegno su “La società e le malattie mentali”, Roma 1968 (ora in Scritti, II, pp. 3-13), nella quale mise in guardia contro il rischio che la stessa comunità terapeutica, nata come esigenza di rinnovamento e di rottura, si traducesse in una nuova ideologia. Nel 1969 apparve anche la Lettera da New York. Il malato artificiale (Torino 1969), nella quale esaminava gli effetti di una riforma innovativa in campo psichiatrico in un paese ad alto sviluppo tecnologico e socioeconomico. Questa analisi lo portava a formulare la critica che avrebbe successivamente sviluppato: interventi ricchi ed efficienti in apparenza, sostenuti da sviluppo tecnico e investimenti di energie, non cambiano la realtà di segregazione della devianza; le “istituzioni più tolleranti”, sotto l’apparenza di rapporti democratici, mantengono il ruolo originario di controllo sociale. In modo più ampio il B. riprese questi argomenti nella prefazione al volume di Maxwell Jones Ideologia e pratica dellapsichiatria sociale (Milano 1970, ora in Scritti, II, pp. 105-125). Pensava che il lavoro del Jones offrisse l’occasione per allargare l’analisi al di là dei significati realizzativi della comunità terapeutica, per ritornare sul tema della malattia mentale vista in una prospettiva che si ampliasse oltre la definizione medica e ne comprendesse la componente sociale. Ricordava che, se l’ambiente sociale è da ritenere corresponsabile dell’insorgere della malattia, allora deve essere chiamato ad influire positivamente sui processi di cambiamento. Inoltre Jones riproponeva una tesi accolta dal B., cioè che a livelli di sviluppo sociale ed economico diversi si trovano modelli ed espressioni istituzionali differenti, ma sempre finalizzati a mantenere il controllo delle regole sociali a sostegno delle strutture economiche e politiche.
Nel 1968 aveva curato la Relazione alla Commissione di studio per l’aggiornamento delle vigenti norme sulle costruzioni ospedaliere, per il ministero della Sanità (ora in Scritti, II, pp. 14-32). Il problema dei rapporti tra l’esclusione psichiatrica e quella carceraria è analizzato in alcuni articoli, tra i quali Psichiatria e giustizia, relazione al I convegno nazionale di Psichiatria democratica (Gorizia 1974), che apparve in La pratica della follia (ora in Scritti, II, pp. 222-236). Interessante è il lavoro Crimini di pace, scritto in collaborazione con la Ongaro, saggio introduttivo al volume Crimini di pace. Ricerche sull’intellettuale e il tecnico come addetti all’oppressione, Torino 1975 (ora in Scritti, II, pp. 237-338), che offre tra l’altro un confronto con le posizioni di R. Laing e J. P. Sartre.
Nel 1971 pubblicò il volume La maggioranza deviante (Torino 1971) in collaborazione con la Ongaro (ora in Scritti, II, pp. 155-184). Scrisse ancora alcune prefazioni: al volume di M.L. Marsigli, La marchesa e i demoni. Diario di un manicomio, Milano 1973, e al volume di R. Castel, Lo psicanalismo, Torino 1975, che riteneva il lavoro più serio di critica alla psicanalisi e al suo significato in rapporto alla struttura sociale. La sua posizione critica nei confronti dell’insegnamento psichiatrico quale veniva fornito dalle università si trova in Ideologia e pratica in tema di salute mentale, Roma 1975 (ora in Scritti, II, pp. 354-361); sosteneva che una buona formazione non potesse prescindere dal lavoro in manicomio.
Incaricato dell’insegnamento di igiene mentale nell’università di Parma, nel 1976 vinse il concorso per professore universitario nel gruppo delle discipline psichiatriche e fu nominato professore di neuropsichiatria geriatrica nell’università di Pavia. Egli peraltro non occupò quel posto e restò all’ospedale di Trieste.
Nel 1978 si giunse in Italia alla riforma della legislazione psichiatrica, in un clima sociale e politico animato da particolari fermenti che sostenevano esigenze di rinnovamento in diversi settori della vita sociale. Il movimento antipsichiatrico ebbe gran parte nel processo che indusse il Parlamento ad approvare la legge 13 maggio 1978, n. 180, “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Nella identificazione popolare la legge 180 venne spesso definita “legge Basaglia”; del resto egli, nonostante le riserve, non rifiutò questa paternità.
Questa legge fu elaborata da una commissione parlamentare, dopo aver ascoltato qualificati rappresentanti della disciplina, compreso il Basaglia. Si può dire che la formulazione definitiva della legge raccolse elementi importanti del pensiero del B., ma non ne fu espressione completa: disponeva la chiusura degli ospedali psichiatrici insieme col divieto di aprirne di nuovi; spostava il cardine dell’intervento psichiatrico dagli ospedali al territorio con la creazione di una rete di centri ambulatoriali e di strutture intermedie; istituiva dei piccoli servizi psichiatrici di diagnosi e cura all’interno degli ospedali generali. Il B. si riconosceva negli articoli che decretavano la chiusura degli ospedali psichiatrici, ma metteva in guardia dalle contraddizioni del provvedimento.
Nella Conversazione a proposito della legge 180, pubblicata in Dove va la psichiatria, Milano 1980 (ora in Scritti, II, pp. 473-485), egli paventava il rischio che la legge, collocando la psichiatria all’interno della sanità, riproponesse quelle che egli definiva le “mistificazioni” della disciplina, riconducendo la sofferenza psichica a una connotazione di malattia nell’ambito positivistico della medicina. Temeva che questo vanificasse tutto il lavoro compiuto per focalizzare sui meccanismi sociogenetici la prassi della psichiatria e distogliesse l’attenzione dalla dimensione sociale del problema, a suo parere il processo di medicalizzazione poteva spegnere i fermenti critici, con l’inserimento del sociale nell’ambito sclerotizzato di una medicina tradizionale. Vedeva il rischio di mantenere i meccanismi di emarginazione, camuffati sotto l’alibi della malattia e della cura, anche senza lo schermo del concetto giuridico di pericolosità e di custodia che improntava la normativa precedente.
Nel 1978 si stava chiudendo anche l’esperienza di Trieste. L’anno seguente, il 1979, il B. si trasferì a Roma, dove assunse l’incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio. Aveva ormai raggiunto una vastissima notorietà sia in Italia sia all’estero.
Intorno all’opera del B. nacquero polemiche che egli non rifiutò mai di affrontare, usandole sempre come veicolo di diffusione di una problematica che voleva portare alla conoscenza di strati sempre più vasti dell’opinione pubblica. Si trattò di polemiche politiche, per le implicazioni socioeconomiche del suo pensiero e per le connessioni che la sua posizione mostrava con l’ideologia studentesca di quegli anni e con il dibattito sulla non neutralità della scienza. Si trattò di polemiche vivaci anche su un piano scientifico nel confronto con la psichiatria accademica e tradizionale; gli venne rimproverata una sorta di avventurismo per le radicali azioni contro la struttura ospedaliera, gli si rimproverò di trascurare gli aspetti biologici della malattia e di perseguire la politicizzazione della pratica psichiatrica.
Il B. fu certamente il principale punto di riferimento della psichiatria di opposizione in Italia, ma il suo pensiero si diffuse trovando collegamenti e sostegno anche all’estero. Alla sua figura si collegò la corrente di antipsichiatria italiana che, nel quadro delle teorie psichiatriche contemporanee, assunse una propria precisa dimensione, distinta da quella anglosassone. Il movimento italiano si trovò più vicino alle teorie sociogenetiche, nel rifiuto della specificità patologica della psichiatria e nella maggiore attenzione all’azione sul sociale. Il B. fu sempre il punto di riferimento della parte della psichiatria italiana che si riconosceva nei movimenti di opposizione, anche se le vicende successive alla legge di riforma e la nuova organizzazione mettevano in evidenza posizioni più articolate e segnali di dissenso. Egli emergeva come figura assai complessa e si collocava al centro del dibattito acceso tra diverse correnti della psichiatria, tra orientamenti e idee spesso tra loro inconciliabili. La sua posizione, in questo confronto, prendeva maggiore rilievo soprattutto dopo la legge di riforma che aveva contenuti innovatori così profondi e connotati così originali da richiamare sull’esperienza italiana appena avviata l’interesse e l’osservazione, si può dire, della psichiatria mondiale.
Negli ultimi anni collaborò a un progetto di prevenzione delle malattie mentali del Consiglio nazionale delle ricerche con una rassegna delle normative in campo psichiatrico: Appunti per un’analisi delle normative in psichiatria, pubblicato in Le ragioni degli altri, Roma 1979, e Legge e psichiatria. Per un’analisi delle normative in campo psichiatrico, in collaborazione con M.G. Gianichedda, Oxford 1979 (ora in Scritti, II, pp. 445-466). Tra gli ultimi lavori si trovano la prefazione a Il giardino dei gelsi, Torino 1979 (ora in Scritti, II, pp. 467-472), in cui proponeva un bilancio della legge 180, e il volume A psyquiatria alternativa. Contra o pessimismo da razão, o otimismo da pratica. Conferencia no Brasil, São Paulo 1979, che raccoglieva la serie di conferenze tenute in Brasile. Nel 1979 curò, insieme con la Ongaro, la voce Follia/delirio per il VI volume dell’Enciclopedia Einaudi, nella quale si trova riassunta gran parte della sua posizione teorica.
A poco più di un anno dall’approvazione della legge 180, che era stata nel frattempo integralmente accolta nella legge 833/1978 di riforma sanitaria, il B. si ammalava gravemente di cancro. Morì a Venezia il 29 ag. 1980.
A cura di Tommaso Losavio per Treccani
Franco Basaglia al Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria tenutosi a Trieste nel 1977 | ph. Gian Butturini
Franca Ongaro Basaglia
Nacque a Venezia il 5 settembre 1928, seconda di quattro figli: Alberto, il maggiore, Cecilia e Luisa. La madre, Carolina Trevisan, faceva la casalinga, il padre Agostino, che lavorava a Murano nell’amministrazione delle fabbriche di perle di vetro, morì nel 1945, quando Franca faceva l’ultimo anno al liceo classico Foscarini. Dovette, dunque, rinunciare all’università e andò a lavorare come segretaria in una società di impianti elettrici, la Sade. Sempre in quell’anno, Franca Ongaro conobbe Franco Basaglia, che aveva 21 anni, studiava medicina a Padova ed era diventato amico di suo fratello Alberto nei mesi passati in carcere, accusati entrambi di attività antifascista.
ALLA RADICE
Franca Ongaro e Franco Basaglia si sposarono nel 1953 e nel giro di pochi anni ebbero due figli, Enrico nel 1954 e l’anno successivo Alberta. Vivevano tra Venezia e Padova: Basaglia lavorava come assistente nella clinica neuropsichiatrica dell’università di Padova, Franca si occupava dei figli, coltivava la passione per la letteratura e seguiva il percorso di suo marito nella filosofia e nella psichiatria fenomenologica. Erano interessi non facili da coltivare in una clinica il cui cattedratico, Giovanni Battista Belloni, seguiva l’organicismo dominante nella psichiatria italiana dell’epoca. Erano anche interessi inusuali, condivisi con gli amici più vicini: il regalo dei testimoni di nozze Hrayr e Giuliana Terzian erano state le opere complete di Jean-Paul Sartre in francese. L’immagine di Franca Ongaro e Franco Basaglia in quegli anni era quella di una giovane coppia borghese che cercava di andare oltre le regole – si erano sposati in chiesa, ad esempio, ma non avevano battezzato i figli, con grande disappunto della madre di Franca – e oltre i ruoli codificati: Ongaro scrisse più tardi pagine molto acute sulle difficoltà del rapporto privato uomo donna in quella fase di mutamenti sociali ancora sottotraccia, e sul rischio, per la donna, di ritrovarsi «relegata a preparare il latte caldo ai rivoluzionari» (Confessione sbagliata, 1968, in F. Ongaro, Una voce. Riflessioni sulla donna, Milano 1982, p. 133). Intanto scriveva racconti per bambini, alcuni pubblicati dal Corriere dei Piccoli a cui collaboravano suo fratello Alberto, giornalista e più tardi scrittore, e l’amico Hugo Pratt. Per il CorriereFranca scrisse anche una riduzione del romanzo di Louisa May Alcott Piccole donne e i testi di Le avventure di Ulisse, una versione dell’Odissea disegnata da Hugo Pratt, che uscì a puntate tra il 1963 e il 1964, quando la vita e gli interessi di Franca Ongaro erano ormai profondamente cambiati. Nel 1961, infatti, era entrata anche lei, per la prima volta, in un ospedale psichiatrico poiché Franco Basaglia era diventato direttore di quello di Gorizia. L’impatto con quel luogo rappresentò per entrambi un punto di non ritorno. Basaglia ricordò molte volte come per lui era stato forte, reale, nei primi mesi a Gorizia, l’impulso di andare via, con il solo sostegno di sua moglie, che maturava e condivideva con lui la scelta di restare e di accettare la sfida rappresentata dal manicomio.
Ongaro si impegnò da subito, come volontaria, nel lavoro di trasformazione: lavorava nei reparti e partecipava alle assemblee generali diventando in breve parte integrante dell’équipe che si allargava, cominciò a studiare sociologia, migliorò il suo inglese e andò per alcune settimane a Digleton, in Scozia, nell’ospedale psichiatrico diretto da Maxwell Jones, che conduceva il primo esperimento di gestione di un intero ospedale in forma di comunità terapeutica. Anche la vita familiare si trasformò, continuamente attraversata dalle discussioni sul lavoro in manicomio, dalle persone che arrivavano a Gorizia e ne restavano colpite, dagli stessi ricoverati con cui anche i bambini avevano a che fare. Dal 1961 al 1968 Ongaro partecipò al lavoro in ospedale psichiatrico mentre studiava e scriveva, ma quando Basaglia si dimise da Gorizia, lei non lo seguì a Parma e a Trieste. Dal 1969 rimase a vivere nella casa di Venezia con i figli adolescenti e da quel momento fece soprattutto lavoro di studio e di scrittura. Il rapporto coniugale si era fatto più teso, difficile: Ongaro vi accennò in un testo, Congedo (in Una voce, cit., pp. 147-149 ), scritto subito dopo la morte di suo marito. Tuttavia, restò sempre molto forte, sostanziale tra i due la condivisione di idee, ricerche, progetti politico culturali. Negli anni Settanta, nella casa di Venezia dove Basaglia tornava quasi ogni fine settimana presero corpo molte iniziative a cui Ongaro partecipò da protagonista: fu tra i fondatori dell’associazione Psichiatria Democratica e del Réseau internazionale di psichiatria alternativa, collaborò all’impostazione del programma Epidemiologia e prevenzione delle malattie mentali del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), diresse tra il 1972 e il 1977 il Centro internazionale di studi e ricerche Critica delle istituzioni che ebbe sede a Venezia e realizzò il volume collettivo Crimini di pace (a cura di F. Basaglia – F. Ongaro, Torino 1973). I numerosi scritti di quegli anni a doppia firma nacquero mentre si sviluppavano queste e altre iniziative e cresceva a Trieste il lavoro di ‘de-istituzionalizzazione’, per usare un concetto dell’epoca. Tutto questo alimentava le lunghe discussioni tra loro, nelle quali venivano coinvolti anche i collaboratori. Quando si era formata una massa critica di idee e argomenti, Ongaro si chiudeva per settimane nel suo studio con la macchina da scrivere e con i fogli su cui Basaglia aveva tracciato appunti da decifrare, poi si facevano altre discussioni sui testi in progress sino alla versione definitiva. Risulta quindi impossibile, oltre che sterile, cercare di distinguere i contributi dell’uno e dell’altra ai libri e saggi pensati e firmati insieme, seppure scritti soprattutto da Ongaro, tra il 1968 e il 1978. Come sarebbe impossibile, e anche fuorviante, leggere quei testi come indipendenti dal lavoro di trasformazione dell’istituzione psichiatrica che Basaglia e il suo gruppo portavano avanti a Trieste e dal movimento che si sviluppava in Italia e non solo.
Ongaro perseguì sempre e difese questo legame tra il suo lavoro teorico e i contesti in cui si giocavano le questioni su cui lei studiava e scriveva. Anche dopo la morte di Basaglia si mantenne costantemente in contatto con i servizi pubblici e con i movimenti sociali, lavorò alla formazione degli operatori, sostenne le associazioni di familiari e utenti, frequentò instancabilmente convegni, dibattiti, incontri, prima e dopo i quasi dieci anni come senatore dal 1983 al 1992.
Questi due aspetti, il lavoro teorico e l’impegno culturale e politico, nella professione e nella vita di Franca Ongaro si integrarono sempre perché nascevano dalla stessa ispirazione, avevano la stessa origine e radicalità.
Negli ultimi anni, lei usava spesso questo concetto: radicalità. Era convinta che per capire la riforma psichiatrica e valutare i cambiamenti avvenuti nella psichiatria e non solo, si dovesse essere radicali, si dovesse cioè tornare alla radice delle questioni, che poi sta nella concreta condizione degli umani, nei loro corpi ed esperienze, nelle diversità e disuguaglianze da cui sono segnati. «È necessario un cambio radicale dei corpi professionali e dei fondamenti culturali delle diverse discipline» concludeva in quello che fu il suo ultimo saggio, la lezione per la laurea ad honorem in Scienze politiche all’università di Sassari il 27 aprile del 2001. «Le discipline, che agiscono essenzialmente su parti separate dei corpi, dovrebbero invece misurarsi con i bisogni di cui questi corpi sono intrisi», e dovrebbero «porsi il problema prioritario della disuguaglianza e del conflitto che essa produce come radice con cui confrontarsi». Quel confronto per Franca Ongaro era iniziato a Gorizia, davanti ai corpi offesi dal manicomio, e si potrebbe dire gran parte del suo lavoro è stato dedicato a capire, spiegare e combattere ciò che allora aveva visto.
CORPO E ISTITUZIONE
Nelle prime pagine di un suo libro per ragazzi pubblicato nel 1982, Manicomio, perché? (Milano 1982; 2ª ed. Roma 1991), Ongaro ricorda «le prime immagini del manicomio». Esse rivelano una cultura comune al gruppo di Gorizia ma che caratterizzò lei in modo speciale. Dimostrano dimestichezza con i meccanismi istituzionali, abilità nel cogliere e decodificare i rapporti di potere attraverso i dettagli e i riti del quotidiano, capacità di leggere il linguaggio dei corpi, degli oggetti, degli spazi. Questa cultura si coglie nel contributo, il primo che Ongaro firmò individualmente, al volume che presentava il lavoro di Gorizia e che uscì nel 1967 con un titolo esplicitamente sartiano, Che cos’è la psichiatria? (a cura di F. Basaglia, 2ª ed. Parma 1967; 3ª ed.Torino 1969; 4ª ed. Milano 1997). A quel libro, che nella prima edizione aveva in copertina un autoritratto di Hugo Pratt in divisa da internato, Ongaro partecipò con un saggio che commentava La carriera morale del malato di mente, un capitolo del libro Asylums del sociologo americano Erving Goffman che lei stava traducendo e che uscì l’anno seguente con un’introduzione di Basaglia e Ongaro (Torino 1968 e 2003). Asylums fu la prima opera di Goffman pubblicata in Italia. Del sociologo americano Ongaro tradusse anche Il comportamento in pubblico (Torino 1971) firmando con Basaglia la prefazione.
Nel frattempo, partecipava all’elaborazione di L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (a cura di F. Basaglia, Torino 1968; 2ª ed. Milano 1998). Nel suo contributo – Rovesciamento istituzionale e finalità comune (pp. 323-335) – si riconoscono alcuni dei temi che Ongaro sviluppò negli anni successivi: il nesso tra libertà e responsabilità, la vitalità e l’inevitabilità del conflitto. «Mettere in questione i ruoli istituzionali induce una problematizzazione della situazione, una messa in crisi generale e individuale insieme» nella quale si oscilla continuamente «tra il bisogno di un’autorità che elimini o diminuisca l’ansia prodotta dalla dimensione in cui l’intera istituzione tende a muoversi, la responsabilizzazione, e il bisogno di conquistare una libertà che però passa inevitabilmente attraverso la conquista della propria responsabilità. Questo vale per i malati e vale per i medici». La prospettiva non può essere una semplice «democratizzazione di rapporti, che rischierebbe di essere fine a sé stessa» riproponendo un gioco fisso di ruoli. La prospettiva è la continua ricerca di «andare oltre la suddivisione dei ruoli», «in un movimento dialettico che non presume di risolvere i conflitti ma di affrontarli a un altro livello» (pp. 333-34).
TRASFORMARE LE ISTITUZIONI E LA CULTURA SULLA FOLLIA
Tra i molti lavori scritti o curati da Ongaro e Basaglia negli anni Settanta, su due è necessario soffermarsi perché rappresentano temi rimasti centrali nell’opera di lei.
Il primo è Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (a cura di F. Basaglia – F. Ongaro, Torino 1969; 2ª ed. Trieste 2009). Uscito un anno dopo L’istituzione negata e qualche mese dopo il documentario di Sergio Zavoli su Gorizia, I giardini di Abele (RAI, TV7, autunno 1968), Morire di classe divenne uno strumento centrale della campagna per la trasformazione della cultura sulla follia e per la riforma della legge psichiatrica. I fotografi, invitati o meno, entrarono negli ospedali psichiatrici, come pure la televisione mentre i grandi quotidiani nazionali prima e quelli locali poi iniziarono vere e proprie campagne di informazione su questi istituti. Certo, gli anni Settanta furono caratterizzati da una mobilizzazione sociale eccezionale, che avveniva anche in altri Paesi europei, dove però i gruppi che in psichiatria cercavano strade nuove rimanevano piuttosto chiusi nelle loro esperienze elitarie, fondamentalmente scettici sulla possibilità di introdurre elementi critici nel senso comune. Il movimento italiano invece si sviluppò nei manicomi pubblici, costruì i nuovi servizi in un rapporto magari conflittuale ma forte con le comunità locali, cercò di entrare nei processi di formazione del senso comune. L’idea di fondo era che i meccanismi di esclusione avrebbero potuto essere messi in questione solo se il problema del manicomio fosse uscito dall’ambito degli specialisti, che andavano pressati dall’esterno, costretti da domande nuove a diventare diversi, a fare una ‘psichiatria democratica’. Ongaro era convinta che questa fosse una questione cruciale. Scrisse Manicomio, perché? nel 1982, in tempi molto difficili per la riforma psichiatrica, con la morte improvvisa di Basaglia, i problemi della sanità in transizione, il movimento dei familiari che sembrava voler tornare al manicomio. Cercò con questo libro la comunicazione con l’opinione pubblica e in particolare con le famiglie delle persone con disturbi mentali: nel corso degli anni Novanta, Manicomio, perché?, fu riedito molte volte dal Centro Franco Basaglia di Roma che lo diffuse nel circuito delle associazioni di familiari e utenti che Ongaro frequentò e sostenne fin dal loro nascere.
Il secondo libro da richiamare è Crimini di pace, che coinvolse intellettuali come Michel Foucault, Robert Castel, Noam Chomsky, Roland Laing, Erving Goffman in una discussione sul «ruolo degli intellettuali e dei tecnici come addetti all’oppressione», come diceva il sottotitolo. Ongaro era molto legata al lungo saggio introduttivo, che volle includere in quello che fu il suo ultimo lavoro, l’antologia L’utopia della realtà (2005, pp. 208-74 ). Il saggio ricostruisce l’origine e i passaggi del percorso di Basaglia e di Ongaro, partito dalle «speranze del dopoguerra di poter costruire un mondo diverso da quello contro cui si era lottato». Speranze rapidamente deluse: «nel momento in cui ci si accingeva a costruire qualcosa che tenesse conto dei bisogni e dei diritti di tutti i cittadini, ci si scontrava con la realtà della lotta di classe e con la conferma della divisione del lavoro che manteneva intatti i ruoli e le regole del gioco. […] In questo gioco ambiguo, dove la distanza tra ciò che si è e ciò che si vuole essere è anche subordinata all’impossibilità di agire e di trasformare la realtà», l’intellettuale e il tecnico militante nei partiti di sinistra poteva accettare e nascondere la propria impotenza «prendendo le parti delle classi oppresse» ma portando avanti, nello stesso tempo, «una vita professionale o intellettuale totalmente aderente ai valori e alle ideologie dominanti trasmessi sotto i crismi dell’oggettività della scienza. […] Dopo anni di polemiche sull’intellettuale impegnato», la consapevolezza di questa condizione cominciò a manifestarsi in quelli che vivevano più direttamente lo scontro tra ideologia e pratica, cioè in quei «tecnici del sapere pratico esecutori materiali delle ideologie e dei crimini di pace». Alcuni di questi «intellettuali di serie C» cominciarono a «mettere in discussione il proprio ruolo e l’ideologia scientifica di cui erano portatori», aprendo una serie di «interrogativi che, nati dallo scontro pratico con la realtà», inducevano «una lenta opera di corrosione delle verità scientifiche, la messa in discussione del rapporto tra queste e la struttura sociale», e infine la ricerca delle condizioni che possono consentire al tecnico di «uscire dalla sua condizione di alienazione rompendo la condizione di oggettivazione in cui vive l’oppresso» (L’utopia della realtà, cit., pp. 208-11).
Negli anni successivi Franca Ongaro continuò a lavorare su questi temi. Sulla trasformazione delle istituzioni e del ruolo istituzionale, in particolare, tornò con un libro che ebbe vita difficile: Vita e carriera di Mario Tommasini, burocrate proprio scomodo narrate da lui medesimo (Roma 1991). Il libro racconta le invenzioni generose e originali di Tommasini, operaio e partigiano comunista, che aveva conosciuto il manicomio quando era diventato assessore della Provincia di Parma, aveva cercato Basaglia a Gorizia e aveva promosso il suo arrivo come direttore dell’ospedale psichiatrico di Colorno. Ma dopo neppure un anno Basaglia aveva lasciato Parma, valutando che non vi erano le condizioni per realizzare il programma che aveva in mente. Tommasini invece aveva continuato il suo impegno di assessore portando avanti una trasformazione radicale delle politiche sociali della città e impegnandosi in prima persona per la riconquista della cittadinanza da parte di coloro che ne erano di fatto esclusi. Ongaro ricostruì nel libro, attraverso le parole di Tommasini e di molti altri testimoni, il percorso dalla chiusura degli istituti per minori e per anziani alla creazione della rete di cooperative sociali, con il coinvolgimento di buona parte della città, ma con conflitti ricorrenti con il Partito comunista, che aveva già cambiato nome quando il libro uscì con gli Editori riuniti, che più volte ne avevano rinviato la pubblicazione, mentre Tommasini lasciava il partito poco dopo.
SALUTE/MALATTIA
Quando organizzava Crimini di pace, Franca Ongaro aveva anche lavorato a un saggio, Il concetto di salute e malattia (con F. Basaglia e M.G. Giannichedda, in F. Basaglia, Scritti, II, Torino 1982, pp. 362-380) in cui si cominciava a dirigere verso la medicina l’approccio critico esercitato sulla psichiatria. All’epoca si era aperto nel mondo della medicina un dibattito ricco di idee ed esperienze innovative, in particolare sui temi del lavoro, dell’ambiente, del corpo e della salute delle donne. Figura chiave era Giulio Maccacaro, che nel 1972 aveva fondato Medicina Democratica e partecipava, tra l’altro, al programma di ricerca Epidemiologia e prevenzione delle malattie mentali guidato dall’Istituto di psicologia del CNR diretto da Raffaello Misiti. Il progetto era decollato nel 1975 e Ongaro aveva collaborato al disegno della ricerca con Basaglia, Maccacaro e Misiti. Ma il 15 gennaio del 1977 Maccacaro morì improvvisamente e la sua assenza impoverì molto la riflessione critica sulla medicina che era appena iniziata. In quel periodo arrivò dall’editore Einaudi, che aveva avviato una Enciclopedia che voleva essere innovativa, la proposta di scrivere alcune voci, otto relative alla medicina, una dedicata alla donna. Franca Ongaro affrontò questa fatica nuova e di grande respiro sostanzialmente da sola: Basaglia firmò con lei la voce Follia/delirio e Giorgio Bignami la voce Medicina/medicalizzazione. Le diverse voci uscirono nell’Enciclopedia tra il 1978 e il 1979 e quelle sulla medicina furono poi raccolte nel libro Salute/Malattia. Le parole della medicina (Torino 1982; 2ª ed. aggiornata a cura di M.G. Giannichedda, Merano 2012).
Nelle prime pagine del capitolo Clinica Ongaro esplicita l’orientamento del suo lavoro: non «una ricerca archeologica sull’organizzazione del sapere medico, sui mutamenti della scienza e della malattia» ma il tentativo di «vedere la malattia, oltre che come fenomeno naturale, come prodotto storico sociale, il cui valore e significato mutano con il mutare di ciò che è – per l’organizzazione sociale in cui ritrova inserito – l’uomo che ne è il portatore». Ciò che secondo Ongaro «occorre vedere è in quale misura il mutare del rapporto medicina/malattia risulti legato a ciò che è l’uomo sano/malato in un dato momento storico, alla sua figura sociale, a ciò che rappresenta nel gruppo di cui è parte; e a ciò che è, come figura sociale, il medico» (p. 32). Questa chiave di lettura risulta particolarmente attuale in questo inizio di secolo. Il mercato delle tecniche mediche ha infatti prodotto una medicalizzazione della vita di straordinaria portata e pervasività, che sta facendo trionfare quello che Ongaro definì nell’introduzione «il mito della salute assoluta, che propone come unica identità l’uomo sano, efficiente, produttivo» (p. 24) e giovane anche da vecchio. In questo quadro, si rivela una previsione quella che Ongaro indica come conseguenza possibile di una così abnorme censura della malattia e della morte. «Per noi la malattia è un’alienarsi totale, perché affidarsi come malato al tecnico della salute significa perdere ogni controllo sul proprio corpo, sulla propria vita, quando non comporta perdere ciò che garantisce la sopravvivenza: il lavoro; per noi è angoscia dell’ignoto perché il solo detentore dei segreti della vita è il medico, il cui lessico incomprensibile ci lascia in balia di un corpo sconosciuto e di una vita che non è mai nostra. Ma, insieme, la malattia resta – nella nostra vita morta – l’unica possibilità di sopravvivenza soggettiva, di interesse, di cura, di sollecitudine, di rapporto in un’esistenza che ne è ormai completamente priva» (p. 27).
ESSERE DONNA
Un altro tema è stato centrale nella ricerca e nell’impegno di Franca Ongaro: il significato dell’essere donna e il rapporto tra i generi. L’inizio era stato emblematico. Aveva scritto «nel ’68, quando si parlava di rivoluzione come se ne fossimo alla vigilia, un articolo, un po’ sfasato rispetto alla politicità del momento, sulle difficoltà del rapporto privato uomo-donna». L’articolo, che anticipa un tema chiave del femminismo, «poneva l’accento sulla coerenza necessaria, in chi tenta di lottare contro ogni tipo di sopraffazione, fra il privato e il pubblico». L’articolo venne pubblicato da Che fare?, una rivista milanese con cui il gruppo di Gorizia collaborava, ma «la redazione evidentemente perplessa di fronte a un testo ambiguo, che tentava di parlare, al di là della lotta di classe, della politicità del quotidiano attraverso una storia di subordinazione della donna, si dissociò con un titolo inequivocabile: Confessione sbagliata» (Una voce, cit., p. 59)
Per alcuni anni Franca non scrisse su questi temi, o meglio scrisse due testi brevi, Grillo parlante (1970) e Il soldato e la spada (1972), che pubblicò solo nel 1982 nell’antologia Una voce, in un capitolo intitolato Monologhi, che si conclude con un testo, Congedo, scritto nel 1980, poco dopo la morte di suo marito. Qui i temi che le sono cari – «l’utopia di un rapporto che per ora si realizza solo nel conflitto, come l’utopia dell’eguaglianza si realizza solo nella lotta per raggiungerla» (p. 147) – si mescolano con un accenno diretto, il solo, al suo rapporto con Basaglia. «Ora che la mia lunga lotta con e contro l’uomo che ho amato si è conclusa, so che ogni parola scritta in questi anni era una discussione senza fine con lui, per far capire, per farmi capire. Talvolta era un dialogo. Talvolta l’interlocutore svaniva, e io restavo sola, sotto il peso di una verità che si riduce a un’arida resa dei conti con il bilancio in pareggio, se l’altro non la fa anche sua» (p. 148).
Riprese a scrivere sulle donne nel 1977, introducendo i libri di Phyllis Chesler Le donne e la pazzia (Torino 1977) e di Giuliana Morandini E allora mi hanno rinchiusa (Milano 1977). L’anno successivo scrisse la voce Donna per l’Enciclopedia Einaudi e curò la ripubblicazione del testo di un neurologo tedesco, Paul Julius Moebius, che era uscito nel 1900 ed era stato introdotto in Italia da Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettrochoc. Il testo, senza ambivalenze come il suo titolo, L’inferiorità mentale della donna, «può trarre in inganno», avvertiva Franca Ongaro nell’introduzione, «e indurre commenti pesantemente ironici» che possono sottovalutare quanto invece «sia ancora presente nella nostra cultura, seppure mascherato, trasformato, tradotto in linguaggi diversi» l’argomentare positivista di Moebius che «ricorre alla creazione di una natura che, di volta in volta, assume la faccia più adeguata all’uso che si vuol farne» (Torino 1978, p. XV).
IN SENATO
Nel 1983 il Partito comunista propose a Franca Ongaro la candidatura come indipendente al Senato, dove fu eletta per due legislature (la IX e la X, complessivamente dal 1983 al 1992) e aderì al gruppo parlamentare Sinistra indipendente. Furono anni di lavoro intenso: fece parte della Commissione sanità e si occupò di temi diversi – trapianti, bisogni e consumi sanitari, disposizioni sul fine vita, tossicodipendenze, carcere, violenza sessuale – ricoprendo un ruolo leader nella battaglia parlamentare per l’applicazione della riforma psichiatrica. Il suo impegno, e certamente il suo successo principale, fu il disegno di legge di attuazione della ‘legge n. 180’, che era stata approvata il 13 maggio del 1978 ed era confluita sei mesi dopo nella legge di riforma sanitaria n. 833, negli articoli 33, 34, 35 sui trattamenti sanitari obbligatori e nell’art. 64 che fissava le «norme transitorie per il graduale superamento degli ospedali psichiatrici». Nella seconda metà degli anni Ottanta, erano presenti in Parlamento una decina di disegni di legge che tendevano a scardinare in vari modi la riforma psichiatrica. Da parte dei ministri della sanità che si erano succeduti non era arrivato alcun gesto di governo né della riforma sanitaria né di quella psichiatrica, le Regioni facevano leggi a volte buone che tuttavia disattendevano, e non si aveva idea di quante e quali fossero le vecchie e nuove istituzioni psichiatriche. A livello locale, tuttavia, amministratori e gruppi di operatori di orientamenti culturali e politici diversi, mettevano in piedi servizi di salute mentale, mentre il gruppo storico di Trieste aveva già organizzato l’intero sistema dei servizi di salute mentale. Quella che all’epoca fu chiamata ‘la 180 bis’ o ‘la 181’ nacque in questa situazione, e prese corpo attraverso un lavoro di studio e di consultazione che Ongaro condusse con esperti, operatori, familiari, utenti e che confluì in parte nel volume Psichiatria, tossicodipendenze, perizia. Ricerche su forme di tutela, diritti, modelli di servizio (a cura di M.G. Giannichedda – F. Ongaro, Milano 1987). Il disegno di legge Ongaro sulla salute mentale fu presentato per la prima volta nel 1987 con le firme di tutta la Sinistra indipendente ma non divenne mai legge, cosa che del resto non si voleva affatto. Riuscì però a conseguire l’obiettivo per cui era nato: stimolare interventi di programmazione e finanziamento dei servizi di salute mentale a livello nazionale e regionale. Il primo Progetto obiettivo salute mentale fu infatti messo in opera dal ministro della Sanità Carlo Donat Cattin nel 1989, due anni dopo il disegno di legge Ongaro, e lo ricalcò in gran parte.
Franca Ongaro morì nella sua casa di Venezia il 13 gennaio 2005, senza riuscire a vedere pubblicata l’antologia L’utopia della realtà, cit., a cui aveva lavorato durante la lunga malattia.
A cura di Maria Grazia Giannichedda per Treccani
Franca Ongaro Basaglia al Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria tenutosi a Trieste nel 1977 | ph. Gian Butturini